Da Ucei Informa - 25 aprile 2010
Qualcosa di più di una caduta di stile
La recente disavventura di padre Raniero Cantalamessa, noto e apprezzato predicatore cattolico che, dinanzi al Papa, ha associato gli attacchi mediatici contro la Chiesa cattolica nel merito della questione della pedofilia all’antisemitismo nazista, invita a qualche riflessione di merito. La pur relativa modestia dell’evento demanda ad un clima di disorientamento che pare lambire da tempo alcuni segmenti del mondo cattolico. Ragioniamo pacatamente su due ordini di riflessioni, evitando di fare barricate. Il primo rimanda all’immagine che il cattolicesimo sembra avere fatto propria del micro-universo ebraico. Il secondo, invece, rinvia al sofferto rapporto che la Chiesa di Roma rivela di intrattenere con aspetti della modernità. Primo passaggio, dunque. L’ebraismo ha conosciuto, a partire dal Concilio giovanneo, una riconsiderazione che non ha precedenti nella storia delle relazioni intrattenute tra le due religioni. Si è trattato di un percorso evolutivo che si è consolidato e sedimentato sotto il pontificato di Papa Giovanni Paolo II ma che ha visto coinvolti tutti i pontefici del secolo appena trascorso. Benedetto XVI, per parte sua, si è fatto garante della continuità di tale indirizzo. Da figli minori si è assurti allo stato di «fratelli maggiori». Tale evoluzione, tuttavia, soprattutto se rapportata ai suoi tanti effetti e alle infinite ricadute, non sempre è stata contraddistinta da una altrettanto chiara capacità di gestire il nuovo rapporto, costruito nel corso di questi ultimi quarant’anni, con gli ebrei. I quali rimangono, per una parte del mondo cattolico, un oggetto e non un soggetto, una entità indistinta e indistinguibile e non ancora dei compagni di viaggio la cui natura è intrinsecamente pluralista. Verso qualcosa che ci è estraneo si possono nutrire molti sentimenti, non da ultima anche una irrisolta identificazione, basata tuttavia su passioni tanto accese quanto assai poco commisurate alla materiale realtà di cui sono fatti gli interlocutori. Se dell’ebraismo come religione il cattolicesimo sembra avere colto le tante peculiarità non la stessa cosa può essere detta quando questo è declinato nei termini di una concreta comunità umana. La quale rimane, agli occhi di un certo cattolicesimo, qualcosa di distante, ovvero di astratto. Ancora una volta alla concretezza dei rapporti si sostituisce la fruizione di immagini e rappresentazioni. Gli ebrei, nel Novecento, sono stati tanto rappresentati quanto ben poco conosciuti. Il rilievo che lo sterminio nazista ha assunto nella definizione di ciò che è ebraico sembra ora essere divenuto una sorta di filtro, attraverso il quale fare passare ogni relazione con gli ebrei. L’assunto neanche troppo implicito, elemento di per sé di grave distorsione, è che questi vadano fatti oggetto di particolari attenzioni in quanto vittime per definizione. Si tratta di un luogo comune diffuso e pericoloso. Se si è amati poiché vittime, e ne è esempio il merito del rimando di Cantalamessa alla lettera dell’«amico ebreo», non ci si potrà emancipare da tale scomoda condizione se non a costo di decadere dal ruolo di oggetto dell’altrui considerazione. Riscontro di ciò ci è offerto dalla severità con la quale ogni gesto dello Stato d’Israele è oggi vagliato, non essendo quella una storia ascrivibile ad una qualche forma di vittimofilia. Nel mondo cattolico a volte si verifica un fenomeno di identificazione per traslazione, laddove agli ebrei contemporanei è attribuita una sorta di funzione martirologica. Ma per l’ebraismo la Shoah non ha alcun significato testimoniale, trattandosi, letteralmente, di una «catastrofe» umana. Nulla di meno, nulla di più. Gli ebrei non sono testimoni del male; semmai ne sono stati tra i destinatari. La sofferenza non costruisce identità. Stabilire un legame privilegiato sulla scorta di questa peculiarità implica invece il falsare aprioristicamente il rapporto, distorcendo, sia pure in virtù di un “pregiudizio positivo”, la fisionomia del proprio interlocutore. Il secondo punto ha invece a che fare con il legame che è intrattenuto con ciò che chiamiamo «modernità». Elemento di inquietudine, a tale riguardo, è stata la denuncia, ripetuta a più riprese da una parte della stampa vicina al mondo cattolico, di un «complotto», ordito da «poteri forti», che si starebbe consumando contro l’attuale pontificato. C’è qui un’ansia sottesa, che rimanda alla incomprensibilità del presente e al suo bisogno di semplificarlo con chiavi di lettura ai limiti della banalizzazione. Non a caso tale polemica ha ad obiettivo gli Stati Uniti, intesi come una terra tendenzialmente ostile, secolarizzata poiché “relativista”, laddove l’equivalenza tra i convincimenti e le fedi condurrebbe alla perdita del senso dell’umano. A ciò si coniuga l’evocazione di una dimensione occulta, dove non meglio precisate «forze» starebbe tramando dietro le quinte contro il presidio morale di Roma. La qual cosa non ci riguarderebbe se non richiamasse, sia pure involontariamente, vecchi fantasmi mai venuti meno. Lo si evince meglio quando si coniuga tale enfasi alle parole del vescovo di Cerreto Sannita, monsignor Michele De Rosa, membro della Commissione CEI per l’ecumenismo e il dialogo, il quale, ha definito gli ebrei «permalosi», contestando in tal modo una sorta di gelosa difesa delle proprie prerogative e di permanente indisponibilità verso le offerte altrui. Si tratta di una reazione a fil di pelle, anch’essa da non enfatizzare, ma che rivela il modo in cui il rapporto con gli ebrei è intrattenuto da alcuni esponenti delle gerarchie, laddove il tutto viene rafforzato dall’affermazione per cui «capisco che abbiano sofferto con l’Olocausto, ma non possono farne una bandiera». Il rischio, neanche troppo implicito, è in questo caso che antichi convincimenti riprendano forza. Poiché nella tradizione antisemita l’ebreo è visto come, al contempo, uno e tutto: uno, poiché impermeabile; tutto, perché intenzionato a controllare il mondo attraverso trame clandestine. La modernità, per una parte del pensiero tradizionalista, rimanda a questo gioco delle parti, dove il ruolo dell’«ebreo» è definito una volta per sempre, nella sua proverbiale insaziabilità. Ci è chiaro che non c’erano necessariamente intenzioni di tal genere dietro questi recenti pronunciamenti e tuttavia questi si inscrivono in un registro culturale che si alimenta anche di queste implicite suggestioni. Ragion per cui il chiedere conto delle altrui motivazioni non corrisponde all’esercizio di una facoltà di giudizio permanente, derivante dall’essere stati vittime, ma al bisogno di evitare che da esse si rigeneri un pregiudizio per cui si rischierebbe di esserlo ancora.
Claudio Vercelli
Nessun commento:
Posta un commento