domenica 27 giugno 2010

L'INTERVENTO DI RAV ALBERTO MOSHE SOMEKH AL CONVENGO SUL HIDA' (LIVORNO,27.06.10)

Rav Dott. Alberto Moshe Somekh
IL DIARIO DI RAV H.J.D. AZULAI

Afferma il Talmud che "anche la conversazione profana di uno Studioso
della Torah richiede di essere studiata" . In un passo del suo diario il
Chidà confessa di essere assai poco portato per le chiacchiere e di
prediligere argomenti dotti, al punto di essere sempre preso sul serio
dai suoi ascoltatori. Certamente i suoi diari di viaggio, che ci
accingiamo a presentare per la prima volta in traduzione italiana, non
sono semplicemente il prodotto di una personalità fortemente attratta
dalla vita in tutte le sue manifestazioni, dalla curiosità sempre
attenta, alla ricerca costante di nuove esperienze. Sono essi stessi un
prezioso testo di approfondimento e di studio, di etica pratica e di
riflessione spirituale, rivelatore di una sapienza straordinaria e di
una mente geniale.

Gli Shadarim.
Gli esuli spagnoli dopo il 1492 dovettero sviluppare assai presto
un'accentuata abitudine a viaggiare. E' un dato normale, nella biografia
di qualunque personalità sefaradita, il riscontrarne gli spostamenti da
un paese all'altro del Mediterraneo senza eccessiva disinvoltura. In
realtà già molto prima dell'espulsione gli Ebrei spagnoli erano propensi
a viaggiare, spinti a spostarsi dalle rispettive professioni, il
commercio, la diplomazia, talvolta la curiosità intellettuale. Altre
volte, invece, erano costretti ad emigrare da congiunture poco
favorevoli: comunque, viaggiavano.
La tendenza a viaggiare dovette avere un incremento dopo il 1492. La
figura di Don Isaac Abrabanel sarà senz'altro emblematica del moderno
ebreo sefaradita deraciné. Gli Ebrei erano alla ricerca di nuove sedi.
Si costituiscono le Comunità di esuli iberici in Italia, Olanda,
Inghilterra, Impero Turco, Nord Africa. Un gruppo, spinto dalle idee
mistiche e messianiche diffusesi allora nel mondo sefaradita come
risposta spirituale alla catastrofe, si stabilì in Terra d'Israele,
fondando nel tempo centri di irradiamento religioso a Gerusalemme, dove
vivevano circa 300 famiglie all'inizio del XVIII sec., Safed e Chebron
(le tre Comunità chiamate in ebraico Yachatz dalla somma delle loro
iniziali) e più tardi Tiberiade.
Una delle creazioni successive all'espulsione degli Ebrei dalla Spagna
nel 1492 fu proprio la Yeshivah di Gerusalemme. Conosciamo bene ancora
il circolo dei Cabalisti di Safed (si pensi solo all'autore del Lekhah
Dodì) da una lettera del 1607 in cui R. Shelomoh Mainstral descriveva la
sua visita in quella città, sede di 18 Yeshivot, 21 Sinagoghe, 700 fra
Rabbini e discepoli. Ogni giovedì mattina, terminata la Tefillah, gli
Ebrei riuniti nella Grande Sinagoga recitavano una speciale Preghiera
per l'esilio della Shekhinah e per la ricostruzione e per la
ricostruzione del Tempio, nonché una benedizione per i munifici
sostenitori che inviavano doni periodici dalla Diaspora, al termine di
un commovente sermone di R. Moshè Galante .
Queste Comunità, dedite per lo più allo studio dei Sacri Testi e della
Qabbalah in particolare, erano sostenute economicamente dai confratelli
della Diaspora, che inviavano loro doni e offerte periodiche. Nei
momenti di maggiore difficoltà erano a loro volta gli stessi residenti
nella Terra dei Padri a sollecitare l'aiuto degli Ebrei della Diaspora.
Da Israele partivano emissari per le Comunità d'Europa allo scopo di
raccogliere fondi per le Yeshivot d'Israele, dando in cambio sostegno
spirituale all'Ebraismo della Golah: in alcuni casi è provato che essi
esercitarono un'attività capillare di diffusione degli insegnamenti
tradizionali in un mondo che correva il rischio di disgregarsi sotto i
colpi dell'assimilazione. Il mondo sefaradita dell'Europa Occidentale,
infatti, specie in Inghilterra ed Olanda, si trovava forse per la prima
volta in una contingenza favorevole: la libertà di culto garantita,
l'agio sociale e l'influenza dell'illuminismo razionalista avrebbero
notevolmente annacquato la assiduità nelle pratiche religiose e lo
stesso sentimento nazionale ebraico, se non fossero intervenuti gli
Shadarim (sigla di sheluchè de-rabbanan, "inviati dei Rabbini") o
Sheluchè Eretz Israel i quali, nei loro interventi, non mancavano di
ribadire agli Ebrei della Diaspora la centralità insostituibile della
Terra d'Israele .
L'istituto degli Shadarim è in realtà antichissimo. A partire dall'epoca
biblica era richiesto il versamento annuale individuale di mezzo siclo
per il mantenimento del Santuario di Gerusalemme. Dopo la distruzione
del Tempio Vespasiano lo sostituì con il fiscus iudaicus, cessato a sua
volta nel III sec. Il Talmud Gerosolimitano racconta che già in
quest'epoca durante il Patriarcato venivano incaricati gruppi di
emissari per il mantenimento della corte e delle Yeshivot (migbat
chakhamim o aurum coronarium) . Munito di una lettera di raccomandazione
(igrà d-iqar: lettera d'onore) del Patriarca Yehudah (230-286), R. Chiyà
bar Abbà fu di fatto il primo fund-raiser della storia ebraica,
visitando a questo scopo le comunità di Siria e Roma .
Venuta meno con la cessazione del Patriarcato nel 429, la prassi fu
esplicitamente proibita dagli Imperatori Teodosio II e Valentiniano ed
ebbe una ripresa due secoli più tardi, a seguito della conquista araba
di Eretz Israel, allorché gli emissari venivano incaricati dai Gheonim e
dai capi delle Accademie. Un'importante fonte storica relativa
all'Italia meridionale nel X sec., la Meghillat Achima'atz menziona il
racconto di un emissario gerosolimitano attivo a Venosa. Dal periodo
mamelucco fino alla conquista turca nel 1517 pochi Shelichim furono
inviati dalle Yeshivot di Eretz Israel. A partire dal XVII secolo il
sistema tornò nuovamente in auge a nome delle quattro città principali.
Ognuna delle città inviava regolarmente il proprio emissario ogni tot
anni in ciascuna delle regioni della missione. L'emissario era chiamato
sheliach kollel (emissario generale) o sheliach kollelot ad indicare il
suo incarico da parte della popolazione cittadina nella sua interezza.
Peraltro esistevano già allora organizzazioni concorrenti, come fra
ashkenaziti e sefaraditi, o Shelichim che viaggiavano a titolo personale
(Shelichim le-'atzmam) e talvolta lo stesso Chidà si lamenta di essere
stato di poco preceduto da altri emissari che gli hanno, per così dire,
guastato la "piazza". Ecco cosa gli successe visitando la città di
Fuerth in Germania:

Ma anche lì, come si vedrà, non combinai nulla. Era giunto infatti un
emissario di nome R. Yehudah Yerucham che si era accordato con loro per
(una offerta globale a favore di) tutta la Terra d'Israele. Peraltro,
sappiamo che questo Yehudah sorpassa tutti gli emissari veri, esibendo
un pacco di documenti (firmati) dai Rabbini e dignitari di Polonia e
Germania e ha in mano il documento della kolelut… mentre tu no. Quale
sigillo di Germania hai in mano? Quale documento è firmato nei tuoi
forzieri? Io, misero e dolorante, udii e mi adirai: "Colui che cerca
falsità a Costantinopoli lancia le sue frecce?" Dissi allora (a R.
Zekharyah): "Tacete! Non vi dirò tutto ciò che mi ribolle dentro come
una fornace su R. Yerucham. La lettera che ho nel sacco vi renderà noto
come egli si comporta".

Fra i primi Shadarim dell'epoca moderna furono Mosheh Galante (dal 1670)
e suo nipote Moshè Haghiz (1672-1731) che girò l'Europa, Italia
compresa, alla ricerca di fondi per la Yeshivah di Gerusalemme e fu uno
dei principali protagonisti, intorno al 1730, della polemica contro R.
Moshe Chayim Luzzatto fra Padova e Venezia . Un altro allievo di R.
Mosheh Galante che visse a Livorno fu R. Chizqiyah da Silva (1659-1695),
l'autore del Perì Chadash scritto originariamente in polemica con lo
Shulchan 'Arukh: finì per essere pubblicato in calce alle stesse
edizioni dello Shulchan 'Arukh e divenne un classico della letteratura
halakhica.
Peraltro la prassi dovette conoscere un forte incremento nel sec. XVIII
a causa delle deteriorate condizioni degli Ebrei in Palestina. Per
l'Impero Ottomano era un periodo difficile: dopo il trattato di Kuciuk
Kainargi il Sultano Ahmed III (1703-1730) dovette volgere le sue
preoccupazioni verso l'Europa, di fatto disinteressandosi completamente
delle terre d'Oriente, che rimasero in mano dei signorotti locali. Di
questa licenza approfittarono i ricchi sovente per imporsi sui più
poveri e depredarli più che possibile con sistemi crudeli. Chi ne soffrì
più di tutti furono naturalmente gli Ebrei: nel 1720 fu incendiata la
Sinagoga Ashkenazita di Gerusalemme (la famosa Churvah) e la Comunità
venne dispersa. Erano urgenti aiuti economici .
Fra le più note figure del tempo vi è quella di R. Chayim ben 'Attar
(1696-1743), nato ed educato in Marocco. Nel 1739 decise di emigrare in
Eretz Israel, avendo appreso dell'iniziativa voluta da Chayim Abulafia
atta a ridar vita ad un centro ebraico a Tiberiade. Desideroso di aprire
una Yeshivah in Israele partì accompagnato da due fidi discepoli, David
Chassan e Shem Tov Gabbay. Giunto a Livorno, ebbe un'entusiastica
accoglienza. La sua casa divenne un centro di studi tanto popolare che
ci si litigava le prime file per assistere ai suoi sermoni, secondo
quanto riferisce R. Moshe Franco. Mandò proclami a tutte le Comunità
d'Italia spingendole all'immigrazione in Israele e per lo stesso
proposito viaggiò a lungo visitando Venezia, Ferrara, Modena, Reggio e
Mantova.
Sfidando un'epidemia, nel 1741 lasciò l'Italia per Israele, seguito dai
Rabbini Moshé Franco, già ricordato e Abraham Sanguinetti: "Per me è
indifferente –avrebbe detto alla partenza- chi viene e chi rimane; colui
che ha ideali andrà a prender possesso della Terra". La Yeshivah fu
fondata in definitiva a Gerusalemme, con il nome di Midrash Kenesset
Israel. Il suo commento alla Torah Or ha-Chayim divenne popolare
specialmente nel mondo chassidico. Una leggenda narra che Ben Attar e
Israel Ba'al Shem Tov fondatore del Chassidismo si sognarono a vicenda
la stessa notte, ricevendo lo stesso messaggio: se si fossero incontrati
nella Terra d'Israele sarebbe giunto il Messia. I due, però, al di fuori
del sogno, non si incontrarono mai.

Il Chidà.
Allievo di Ben Attar al Midrash di Gerusalemme fu il più celebre di
tutti gli Shadarim forse di ogni tempo, R. Chayim Yossef David Azulay
(Chidà). Nato a Gerusalemme nel 1724 da una famiglia rabbinica
marocchina, il suo genio si manifestò precocemente: a diciassette anni
aveva già composto ben due trattati di studi talmudici. Nel 1753 fu
inviato per la prima volta in Occidente come Shaliach della Yeshivah di
Chebron: percorse, onorato ed acclamato anche da non-ebrei l'Italia, la
Germania, l'Olanda, l'Inghilterra e la Francia. In Italia si trattenne a
Ferrara, a Modena, ad Ancona e a Venezia. A Livorno nel 1756 ebbe
un'accoglienza trionfale, entusiastica. Un mecenate locale, il medico e
maskil Michael Pereyra De Leon lo ospitò nel suo palazzo e provvide alla
pubblicazione del primo frutto dei suoi studi, lo Sha'ar Yossef sul
trattato talmudico Horayyot.
Nel 1758, tornato a Gerusalemme, ottenne la posizione di Dayyan del
Tribunale Rabbinico e l'ammissione nei circoli cabalistici. Nel 1764
partì nuovamente per Costantinopoli dove era stato incaricato di mediare
una controversia fra Rabbini e leaders comunitari, ma avendo appreso
durante il viaggio che questi ultimi avevano nel frattempo avuto la
meglio si fermò al Cairo dove fu nominato Rabbino Capo, per poi tornare
a Chebron. Nel 1772, a causa della guerra russo-turca, intraprese un
nuovo viaggio nel Nord Africa, in Francia, Olanda ed Italia alla ricerca
di fondi terminato il quale, nel 1778, decise di stabilire la sua dimora
a Livorno, centro di studi di rinomata importanza. Quivi fu sostenuto da
un altro filantropo, Eli'ezer Chay Shalitiel Recanati, che istituì per
lui in casa propria una Yeshivah dove potesse studiare ed insegnare. Qui
pronunciò molte delle sue famose prediche: dallo studio egli non si
mosse e non accettò mai la carica rabbinica della Comunità. Solo una
volta all'anno, per Shabbat Shuvah, si recava in abito bianco al Tempio
Maggiore per tenervi la predica solenne prima di Minchah. Gran folla di
popolo si schierava su due file al suo passaggio lungo il breve tratto
di strada che doveva percorrere, facendogli ala ed entrando poi al suo
seguito al Tempio. L'omaggio si ripeteva al ritorno. Molte leggende
circolano sul suo conto e diversi miracoli gli vengono attribuiti. Morì
a Livorno la sera di Shabbat Zakhor del 1806. Due poeti italiani, R.
Isaia Norzi e Yossef Morpurgo gli dedicarono elegie funebri.
Avendo dedicato l'intera esistenza allo studio ed agli scritti, la sua
produzione ammonta ad oltre settanta opere ed abbraccia l'intero spettro
del sapere ebraico, dalla Bibbia, al Talmud, alla Cabbalah ed altri
argomenti. Questi testi fanno di lui probabilmente il più grande
Decisore sefaradita posteriore allo Shulchan 'Arukh. Restano come
testimonianza della sua poliedrica e affabile personalità i suoi diari
di viaggio, che coprono gli anni 1753-1788, sia pure in forma
discontinua. I diari originali, due piccoli manoscritti, vergati in modo
nitido, sono conservati presso la biblioteca del Jewish Theological
Seminary di New York e furono pubblicati integralmente solo nel 1934 .
Fin dal 1879 avevano visto la luce edizioni parziali: in quell'anno fu
pubblicata la prima edizione di sole 28 pagine, sotto il titolo Ma'agal
Tov (Circolo, o Sentiero Buono). Questo titolo non è peraltro
originario. In una delle sue lettere il Chidà definisce i suoi viaggi un
Ma'agal Tov (espressione tratta da Proverbi 2,9), ma non ha mai dato
questo titolo ai suoi viaggi. Brevi estratti furono tradotti in inglese
, tedesco , olandese e francese , fino alla versione integrale inglese
di Benjamin Cyberman, The Diaries of Haim Yosef David Asulai, The Bnei
Issakhar Institute, Gerusalemme, 1997. Tre anni prima Abraham Hassan
aveva realizzato una ricostruzione divulgativa della sua biografia in
lingua francese: Le Rav Hida. La vie de Rabbi Haim Yossef David Adulai,
Fondation Od Yossef Hay, Bnei Berak, 1994.
Del fatto che le versioni siano apparse solo relativamente tardi
Cymerman spiega la ragione con lo stile ebraico senza dubbio molto
complesso del Ma'agal Tov. Esso è spesso costruito, al pari della
letteratura rabbinica in genere, da adattamenti letterari e citazioni di
fonti bibliche, talmudiche e midrashiche, mescolate in modo da dare
all'insieme un significato complessivo nuovo. Le allusioni che
contengono sono fruibili quasi soltanto da addetti ai lavori ed è molto
difficile, se non impossibile, gustarle al di fuori della lingua
originale. Egli fa uso di giochi di parole, assonanze, ghematriyot, come
quando sostituisce deliberatamente alla parola sar (ministro, principe,
alto funzionario, in genere con funzioni di esattore) il vocabolo tzar
(oppressore). Ovvero trasforma in sigle ad hoc termini tratti da
citazioni bibliche. Dopo aver soggiornato nelle Comunità di Ferrara,
Lugo di Romagna e Ancona e aver duramente lavorato per risolvere
controversie interne dei tre centri, il Chidà ringrazia il S. con il
versetto: "Chi è come Te fra gli Dei o S., chi è come Te venerabile in
santità, operatore di meraviglie" e specifica che l'ultima parola
"meraviglie", in ebraico fele', è formata dalle iniziali delle tre città!
E' arduo talvolta rendere il senso di ciò che il Chidà vuole comunicarci
mantenendo nello stesso tempo lo stile originario. Alcuni passi
rimangono oscuri aldilà degli sforzi più strenui di qualsiasi
traduttore: specie quelli in cui Chidà si lascia prendere da una vena
poetica: in genere si tratta di invettive contro situazioni o personaggi
negativi nei quali si è suo malgrado scontrato! Il tutto è temperato da
una vena fortemente ironica che pervade l'intero testo. L'ironia, si sa,
è un classico della letteratura ebraica di ogni tempo, in quanto
risponde ad un'esigenza etica ben precisa. E' lo strumento in mano
all'oratore o allo scrittore per denigrare un personaggio che se lo
merita senza scadere nel dileggio, nell'insulto e nella maldicenza,
tutte espressioni proibite dalla Torah. Lo stesso Chidà, presentando
molti suoi colleghi incontrati qua e là in termini talvolta
magniloquenti, ci lascia un legittimo dubbio sulla reale statura di
questi personaggi!

Le Massa'ot.
Il diario di viaggio del Chidà non è naturalmente l'unico del suo genere
nella storia della letteratura ebraica. Gli Ebrei, popolo errante per
eccellenza, hanno lasciato testimonianze che consentono la ricostruzione
di un vero e proprio filone, chiamato massa'ot (Itinerari) fin dal
Medioevo. Il più famoso di tutti è forse il Sefer Massa'ot di Binyamin
da Tudela , partito dalla Spagna intorno al 1160 e ritornatovi nel 1173,
dopo aver visitato a sua volta la Provenza, l'Italia, la Grecia, la
Turchia, Cipro, l'Oriente e infine l'Egitto. Le ragioni del lungo
viaggio sono ignote: un certo suo interesse per il commercio del corallo
ha fatto supporre che si trattasse di un mercante di preziosi. La
caratteristica che contraddistingue decisamente questo autore rispetto
al più tardo Chidà è l'impersonalità. Privo di ogni notazione personale,
l'Itinerario quasi mai indulge al racconto in prima persona. Il libro
dovette comunque avere fin da antico un notevole successo, considerando
il gran numero di manoscritti, edizioni a stampa e traduzioni in cui fu
diffuso.
Come scrive Giulio Busi nella prefazione alla sua traduzione italiana,
"Binyamin ha un'idea, ripercorrere la trama complicata della diaspora
della sua gente… Israele è disperso tra i popoli, i frammenti
dell'antica unità sono stati scagliati lontano, negli angoli più riposti
della terra, nei siti più impensabili. Per ricostruire l'immagine
complessiva del popolo ebraico non v'è allora che un'unica via:
ricostruire l'immagine del mondo…: anche i villaggi più sperduti possono
celare una minuscola comunità israelitica, anche oltre le montagne più
impervie può essersi spinto l'esilio di Giuda". Simili considerazioni
restano valide in una certa misura anche per Chidà. La curiosità da lui
manifestata per le ricchezze del mondo gli richiamano costantemente alla
mente lo stato di povertà della terra d'Israele. Osservando lo sfarzo
delle corti europee, come quando descrive i gioielli della Corona
inglese o l'incoronazione del nuovo Sultano di Costantinopoli, non manca
di citare la fonte talmudica: "se tanto è dato a coloro che
trasgrediscono la Sua Volontà, quanto maggiore sarà il premio per coloro
che la eseguono" allorché verrà il Messia e la dinastia davidica sarà
ricostituita in tutto il suo splendore a Gerusalemme.
Di un paio di secoli più antichi sono il geografo Ibrahim Ibn Ya'qub da
Tortosa e il diario del viaggio semileggendario di Eldad della tribù di
Dan. Ibrahim è il primo a parlare della Polonia in Occidente. La sua
versatile cronaca di viaggio ci è giunta in frammenti attraverso le
opere di posteriori geografi arabi, che la utilizzarono per approfondire
le loro conoscenze dell'Europa a Nord dei Pirenei. Eldad, appartenente
ad una delle antiche tribù d'Israele portate in esilio dal re d'Assiria
, insieme ai discendenti di Gad, Naftalì, Asher e della sua tribù,
dimora presso le rive del Sambatyon: il fiume che scorre nel paese di
Chawilah, la terra dell'oro vicino all'Etiopia , non contiene acqua ma
sassi e sabbia, e nel giorno di Sabato arresta il suo corso. In quella
regione ideale non si conosce l'impurità e si seguono le leggi bibliche.
Scopo della descrizione era verosimilmente quello di sollevare gli
spiriti degli Ebrei oppressi, dando loro notizia delle tribù scomparse
solo in apparenza, immaginando che vivessero in libertà in terre
lontane, così creando un'attraente utopia ebraica per contraddire la
pretesa cristiana che l'indipendenza ebraica fosse cessata dopo la
distruzione del Secondo Tempio. In realtà i protagonisti vanno incontro
ad imprevisti poco graditi: Eldad è fatto prigioniero dai cannibali e
riscattato solo in extremis. "Diventa schiavo, compravenduto sinché un
pio Ebreo lo affranca per fargli riprendere il viaggio… E nel narrare
queste peripezie il viaggio di Eldad è eccessivo, ironicamente
ridondante…". Anche il Chidà aderisce a questo genere dell'avventura a
lieto fine, specialmente quando narra degli attacchi di predoni del
deserto, descritti come "non uomini, bensì serpenti e scorpioni", dai
quali sfugge per miracolo. Ovvero allorché si sofferma, più
semplicemente, sui suoi rapporti con i vari funzionari di dogana che
esigono da lui tasse o gli pignorano i beni, e ne esce grazie ad un
intervento diretto del Santo Benedetto.
Fra i viaggiatori vanno annoverati fin da antico anche Rabbini e uomini
di fede e di cultura. Il caso più eclatante è forse quello del mistico
Abraham Abulafia, che nel 1280, proveniente dalla Spagna e reduce da una
lunga peregrinazione per le sponde del Mediterraneo, si presentò a Roma
con l'intento di convertire il papa all'Ebraismo. Nutrito della Qabbalah
che il mondo sefaradita andava allora elaborando, si presentò alla
residenza pontificia dove fu arrestato prontamente dalle guardie e
avrebbe fatto ben misera fine se nel frattempo Nicola III non fosse
passato a miglior vita. Comunque sia Abulafia, durante il suo soggiorno
in Italia, aveva allacciato rapporti con i dotti italiani del tempo,
apprendendo il Moreh Nevukhim del Maimonide dal filosofo Hillel ben
Shemuel da Verona, autore del Sefer Tagmulè ha-Nefesh, un saggio sul
destino dell'anima.
Più vicino a noi nel tempo il Viaggio in Terra d'Israele compiuto da
Meshullam da Volterra nel 1481 , spinto a lasciare la Toscana e a
recarsi in Terra Santa per adempiere ad un voto. Anche in questo caso si
tratta di un viaggio compiuto dalla Diaspora in direzione della Terra
Promessa, con il deliberato proposito di fare ritorno in Italia non
appena assolto il proprio dovere. Diverse, sotto questo profilo, le
coeve lettere ebraiche che invia in Italia un illustre Rabbino emigrato
in Terra d'Israele, 'Ovadyah da Bertinoro, il più celebre commentatore
della Mishnah . Spinto in questo caso da una forte motivazione
religiosa, 'Ovadyah aveva fatto la scelta di abbandonare l'Italia e i
suoi stessi famigliari per trasferirsi a Gerusalemme. I suoi scritti
contengono una documentazione preziosa delle Comunità ebraiche di
Sicilia solo pochi anni prima della Cacciata degli Ebrei dall'isola,
avvenuta nel 1500 e la loro definitiva scomparsa. Ma sono importanti
soprattutto per la denuncia delle difficili condizioni economiche degli
Ebrei nella Terra Promessa in quest'epoca, oppressi da ingenti tassazioni.

La Shelichut.
Rispetto a tutti questi testi precedenti, il Ma'agal Tov del Chidà
manifesta due differenze rilevanti. Anzitutto la mole, che è molto più
ampia e ricca. In secondo luogo esso si presenta come un viaggio "a
ritroso", dalla Terra Promessa alla Diaspora. Ben noto è lo scopo del
suo viaggio: la ricerca di fondi per le Yeshivot di Eretz Israel.
Ciascuna Comunità della Diaspora visitata manteneva infatti un fondo
speciale per la Terra d'Israele, detto Quppat Eretz Israel. Per
comprendere meglio il diario del Chidà è pertanto indispensabile
premettere alcune nozioni sul funzionamento di tale missione detta in
ebraico, a seconda dei punti di vista, shelichut ovvero chaluqqah
(distribuzione). Si trattava infatti di un incarico ufficiale che
l'emissario doveva in ogni occasione provare: per far ciò doveva avere
con sé durante il viaggio una serie di documenti.
Il più importante era la Iggheret kelalit, un lungo e dettagliato testo,
scritto in genere su pergamena in stile ornato, che conteneva la
richiesta di aiuto economico: questa era in genere accompagnata da una
dettagliata descrizione delle sofferenze della Comunità emittente e
delle sue virtù. La Iggheret era firmata dal Rabbino e dai maggiorenti.
La lettera era in genere scritta in ebraico, ma già dall'epoca del Chidà
alcuni emissari presero l'abitudine di tradurla, in toto o in parte,
nella lingua della terra di destinazione. La Iggheret principale era
talvolta accompagnata da esemplari abbreviati, destinati a singoli
filantropi, al singolare Iggheret li-Ndivim. Incontrando personalità
molto influenti anche non ebraiche (re, principi, ambasciatori, ecc.)
con cui la missione lo metteva in contatto, si dava anche il caso che
l'emissario si facesse firmare una sorta di credenziale da esibire nelle
visite successive.
Nei confronti della Comunità emittente lo Shaliach era vincolato
attraverso lo Shetar tenaè ha-Shelichut (documento delle condizioni
della missione) in cui era pattuito il compenso e il rimborso spese
dell'emissario, da dedursi dal ricavato della raccolta. Al suo ritorno
l'emissario era tenuto a fornire un rendiconto delle entrate e delle
uscite. A partire dal XVII sec. l'uso era di attribuire all'emissario da
un quarto ad un terzo dei fondi da lui raccolti. Vi era infine il Pinqas
ha-Shelichut (taccuino della missione) in cui i responsabili delle
Comunità e i filantropi contattati annotavano le somme da essi stessi
versate. Per l'emissario il Pinqas da un lato fungeva da ricevutario dei
contributi già raccolti, dall'altro serviva da propaganda da esibire nei
luoghi che ancora dovevano essere visitati. Infine, una volta rientrati
in patria, gli emissari mostravano il Pinqas ai propri successori in
modo che questi ultimi potessero meglio orientarsi nell'organizzazione
dei viaggi successivi. A Fuerth il Chidà si accorge di non avere con sé
il Pinqas relativo alla raccolta per la Yeshivah di Chebron di recente
istituzione accanto alla chaluqqah per la città e la Iggheret di
autorizzazione non ne fa menzione. Ecco cosa capita:

Il Rabbino insistè: "Comunque sia, voglio vedere la lettera, se stai
dicendo la verità. Ma se rifiuti sarà questo il segno che hai parlato in
modo falso e non è vero niente!". Mio malgrado afferrai la lettera e gli
dissi: "Se vuoi, ti mostro la lettera, ma in mano mia". Così fu. Dopo
averne letto due o tre pagine mi disse: "Non fai bene a tenerla per te.
E' per un caso del genere che (i Maestri) hanno detto: "Affrettati a
spezzare i molari dell'iniquità". Quanto meno consegnala a chi può
ricopiarla". Presi allora la lettera e andai da R. Zekharyah, "padre"
ideatore di tutto questo guaio, e gli dissi: "Perché i Parnassim mi
hanno trattenuto? Cosa volete da me?" Cominciò allora a versare fiumi di
parole su parole per dimostrare che era stato costretto a rivelare il
segreto che gli avevo confidato e alla fine soggiunse: "sappi che mi
devi mostrare la lettera, altrimenti temo per la tua disgrazia!" Allora
gli mostrai la lettera in mano mia e la lesse interamente. Per la
verità, io non l'avevo ancora letta tutta sì da conoscerne tutto il
contenuto, perché era più lunga del… veleno. Ma ora vidi alla fine del
testo alcune cose non corrette. Affermava che i Saggi di Hebron non
avevano mai chiesto (aiuto) alla "Cassa della Terra d'Israele":
domandavano soltanto quelle offerte volontarie che la popolazione di
Germania si era impegnata a dare nel taccuino dell'emissario precedente.
Fui preso da grande tremore. Avevo in mano una spada puntata contro di
me! Infatti non mi hanno mai dato il taccuino, mentre avevo sempre
chiesto soldi dalla "Cassa per la Terra d'Israele". Certamente si
trattava di lapsus calami commessi inavvertitamente!

Così accadde a Bamberg:

Quando i Parnassim guardarono il taccuino e –principio di tutti i mali-
notarono che le città di Pfersee e Kriegshaber non vi avevano apposto i
loro nomi, cosicché anche quelli venuti dopo –poveretti- si erano
astenuti dal dare un rispettabile contributo, anch'essi fecero di tutto
per dimostrare che ero un falsario –D. ci scampi-. Codesti uomini di
sale convennero di far chiamare il mio attendente per cercar di capire
dalle sue parole com'era ordito l'inganno. Il mio attendente era un uomo
probo e retto come Samuele: diceva solo la verità. Quando tornò,
spaventato e tremante, mi riferì tutto ciò che gli era successo. Allora
presi in mano i taccuini e i blocchi di lettere –circa 300- che avevo
con me, mi levai e mi recai da loro, parlando duramente tanto ero
infuriato: "Non riuscite forse con i vostri occhi a vedere tutti questi
documenti scritti in ebraico, spagnolo e italiano? Vedete bene tutte le
firme di Hebron, Costantinopoli, di tutti i Rabbini d'Italia, la firma
dell'Ambasciatore del Re di Francia e quella del Patriarca cristiano di
Gerusalemme? Chi si troverebbe in grado di falsificare tutto ciò in
lingue e scritture così diverse? Che fine ha fatto la vostra
intelligenza? Il S. ha proibito varie volte l'aggressione verbale allo
straniero nella Torah. Vi par giusto screditare e dileggiare l'emissario
della terra d'Israele?"

Accanto al Pinqas alcuni emissari tenevano veri e propri diari di
viaggio, in cui annotavano il numero, l'occupazione, le abitudini dei
membri di ogni Comunità visitata, lasciandoci informazioni storiche
preziose specie al riguardo di Comunità remote o addirittura scomparse.
Il Ma'agal Tov è senza dubbio il più importante e famoso di questi diari.
Sotto il profilo geografico nel XVII sec. erano già delineate almeno
quattro regioni di missione: il Mediterraneo Orientale, l'Italia;
Francia e Germania e il Nord Africa. La durata del viaggio non era
stabilita in partenza e dipendeva dalle opportunità legate tanto alla
raccolta dei fondi che alla ospitalità disponibile. In genere la
missione non durava più di tre o quattro anni, con alcune eccezioni fino
a dieci anni. Talvolta lo stesso emissario veniva inviato più volte
nella stessa località. I viaggi presentavano gravi rischi, legati tanto
a fattori ambientali che criminali. Degli 850 emissari 85 morirono
durante la missione o come conseguenza. Altri vennero derubati dei loro
averi o presi prigionieri. Ecco come il Chidà descrive la cattura della
sua nave da parte dei pirati:

14 Tammuz, P. Balaq. Sabato : nel giorno del S. Shabbat vedemmo Kara
Burun. Al mattino mi alzai con il versetto: "Leva la Tua mano contro i
Tuoi oppressori e tutti i Tuoi nemici saranno recisi". Sul far del
mezzogiorno fummo abbordati dal corsaro Frances e il capitano si recò da
lui nel tentativo di fermarlo, ma poi vennero venti dei (suoi) marinai,
mi presero con la forza e mi trascinarono sulla loro nave, dove mi
frugarono in ogni modo possibile, trattenendomi (in ostaggio) insieme al
mio capitano. Per i molti miei peccati non potei osservare i due pasti
diurni dello Shabbat. Ero molto angosciato anche perché avevo affidato
al capitano un portamonete pieno di talleri, oltre ai circa 500 gulden
che avevo con me e mi ricordai di avere con me delle lettere da Londra,
compresa una lettera di cambio. Qualora –D. ci scampi!- avessero visto
qualche segno (di sospetto) avrebbero dato corso alla loro falsità
dicendo che era tutto proprietà degli Inglesi: dissi 91 volte il Salmo
91 e feci molti voti! Ma grazie al Cielo domenica 15 Tammuz a
mezzogiorno ci concessero di tornare sulla nostra nave.
Il pirata sedeva nella stanza con qualcosa come venti persone dalle
spade sguainate che ci circondavano sulla nostra nave. Grazie al Cielo
ebbi la forza e la prontezza di prendere le lettere da Londra e di
distruggerle e misi il chimir dei gulden a contatto con la mia carne.
Lunedì 16 Tammuz a sera vennero i nemici e portarono via tutte le borse
con il denaro, compreso un portamonete con dei depositi che portavo in
grembo. Si presero tutte le mercanzie e frugarono tutti i nostri abiti:
misero le mani anche nei vestiti che portavo addosso, tasche incluse.
Nella Sua grande misericordia il S. fece sì che non trovassero il
chimir. Ci trattennero a Ciandarlik per sei giorni. Cercarono pretesti
per attaccar briga con il capitano, per poterci fare la guerra, ma il
nostro capitano era molto intelligente, subiva tutto senza aprir bocca.

Altre volte le angherie provenivano da doganieri e funzionari pubblici,
tenendo conto dell'elevato numero di frontiere che caratterizzava
l'Europa di allora, fatta di tanti stati spesso in guerra fra loro:

9 Iyar, P. Emòr. In serata raggiungemmo la baia di Harwich, l'inizio
dell'Inghilterra! Passeggeri e bagagli del battello postale venivano
tutti quanti portati alla dogana. Estrassi qualche moneta inglese
d'argento per pagare i doganieri a(l controllo de)i documenti, lasciando
il portafogli nella cintola che portavo sui fianchi. Poi mi recai dove
erano i bagagli: avevano aperto il mio baule, frugando meticolosamente
fra tutti i vestiti e fra le pieghe del turbante con grande attenzione.
Presero tutti i documenti relativi alla missione e li portarono al
governatore: già si era in odore di guerra con la Francia. Anche i
marinai furono esaminati accuratamente, fino a far togliere a ciascuno
scarpe e calze per controllare ogni possibile nascondiglio. Ad uno
trovarono un guilder olandese: lo fecero a pezzi e lo gettarono. Io
stesso, nella mia miseria, provai molta angoscia e dispiacere, perché
nella mia saccoccia di guilder olandesi ne avevo circa 180! Nel
frattempo il doganiere tastò i miei abiti dall'esterno e udì il
tintinnio dei soldi: disse qualcosa ridendo! Io trasalii, ma mi ricordai
del borsello con le monete inglesi che avevo sulla cintola. Lo afferrai
e lo gettai davanti a lui: vedendo che si trattava di monete inglesi si
vergognò e le restituì. Avevo con me una raccomandazione per il
Direttore delle Poste locale: per sua intercessione mi resero indietro i
documenti senza accorgersi dei guilder che portavo con me. Lodi a D.
benedetto: "come potrò ripagarLo per tutti i benefici che mi ha fatto?".

L'emissario era accompagnato da un attendente (mesharet): il Chidà
riferisce della morte improvvisa del suo mesharet, annegato nel mare
dove si era recato per l'immersione rituale del venerdì senza averlo
preavvisato, e del cordoglio che ne seguì. In generale il viaggio
avveniva con calessi presi a nolo dalle Comunità, che erano avvertite
dell'arrivo dell'emissario, carrozze di linea, o per imbarcazione se via
mare o per via fluviale. Altre volte si doveva proseguire a cavallo o a
dorso di cammello e una volta il Chidà stesso racconta di essere stato
speronato e disarcionato durante il guado di un fiume in piena. La
Comunità visitata si prendeva carico dell'ospitalità, che naturalmente
non era dello stesso livello dappertutto. In genere una delegazione
andava incontro all'emissario al suo arrivo alle porte della città o al
porto e si incaricava di farlo incontrare con i Rabbini, i maggiorenti o
provveditori (parnassim) e le personalità più abbienti, dette ghevirim.
In realtà non sempre la Comunità era così sollecita e talvolta il Chidà
si lamenta di mancanza di sensibilità, mentre non lesina lodi a chi "gli
ha usato benignità e misericordia" tanto nell'ospitalità che nella
generosità. E' celebre la descrizione dell'accoglienza non proprio
principesca che ricevette a Monte S. Savino:

Quando giungemmo al quartiere ebraico non c'era nessuno a riceverci. Era
già tardi per recitare la preghiera di Minchah e così dissi: "Andiamo
alla Casa del S.". Trascorse la preghiera di Minchah e così pure la
preghiera serale e ancora non avevamo un posto per dormire. Usciti dalla
Sinagoga scendemmo inizialmente verso una casa nei paraggi completamente
vuota. Le finestre erano aperte e faceva freddo essendo inverno. Con noi
erano venuti degli uomini e allora ho detto: "Chi è qui il provveditore
(della Comunità)? Uno di essi mi rispose: "Sono io". Gli dissi: "Guai
alla generazione di cui tu sei il provveditore, ti sembra giusto
disonorare così un emissario della Terra d'Israele, trattandolo come uno
zotico? Non c'è timor di D. in questo posto!"

Ecco ancora il diverso riscontro a Worms e a Francoforte:

All'uscita di Shabbat mi recai dai Parnassim della S. Comunità di Worms.
Ma nonostante compianti e lamenti (vanità delle vanità) si coprirono il
volto di ortiche e rifiutarono di dare alcunché. E quanto più duramente
il Rabbino parlava loro tanto più sembravano paglia: che si ammorbidisse
la durezza della cervice da quanto era dura che avrebbe spaccato una
roccia e spezzato barre di ferro! Comunque, per rispetto del Rabbino,
scrissero nel documento che avrebbero inviato una certa somma ad
Amsterdam. Ma mantennero la promessa solo nel cuore: a tutt'oggi non
hanno mandato nulla!…
A Francoforte mi fecero grande onore. Mi fermai lì per più di tre mesi,
con grande dignità, a casa di R. Leib già ricordato, uomo generoso.
Avevo una camera speciale tutta per me e la Comunità pagava
settimanalmente a R. Leib otto fiorini d'affitto. Trascorsi tutti i
Sabati dai vari dignitari: uno Shabbat da R. Susskind Stern, due da R.
Michael Speyer, uno da R. Beer Kahn, uno da R. Meir Hannover, uno da R.
Sussel Colef e uno da R. Natan Colef; quanto ai restanti Sabati e ai
Giorni Penitenziali li passai da R. Reuven Scheyer il cui affetto per me
fu fantastico al massimo: si prodigò tanto per me con volto luminoso e
così fece suo figlio e il giovane sopra menzionato. Meraviglie su
meraviglie! Cercavano di onorarmi, di elevarmi e di innalzarmi,
acquistando per me chiamate alla Torah e aperture dell'Arca per diversi
fiorini. R. Reuven mi comprò per nove fiorini un cedro che non aveva
pari in città. Mentre mi trovavo a Francoforte acquistai molti libri e
altrettanto fece il mio aiutante per se stesso. Affidammo i bagagli a R.
Reuven perché li mandasse ad Amsterdam per via fluviale: mi rispose che
l'avrebbe fatto appena gli avessi scritto del mio arrivo. La Comunità
donò una somma considerevole per la mia missione. Lo scrivano R. Israel
scrisse nel mio documento che era destinata agli Ashkenaziti, ma io
insistei finché cancellò e scrisse: "ai poveri" in genere. Anche il
Rabbino R. Moshè Roff scrisse una lettera di buoni uffici su mia
richiesta. Mi diedero vettovaglie per il viaggio. I dignitari, dal canto
loro, non fecero mancare la loro bontà a loro volta: che D. ricompensi
la loro opera!

L'alloggiamento avveniva in genere presso una o più di queste famiglie,
a seconda della durata del soggiorno nella medesima città, che poteva
andare da una sola notte ad alcuni mesi. Ove non ci fosse questa
disponibilità l'emissario con il suo attendente venivano collocati nelle
locande, gestite da Ebrei ove possibile, altrimenti dai Gentili. Il
Chidà accettava in genere inviti a pranzo di buon grado, ma in molti
casi si asteneva dal mangiare la carne per non dover esprimere un
giudizio sugli shochatim locali. Scrive ad un certo punto di aver
appreso in fretta la shechitah del pollame in proprio per garantirsi di
avere almeno questo tipo di carne per lo Shabbat. Nel suo bagaglio
portava con sé delle masserizie per potersi preparare il cibo alla bisogna.
Le conversazioni non ruotavano ovviamente solo intorno al denaro e agli
scopi della missione. Da dotto straordinario che era si compiaceva, non
appena se ne presentava la possibilità, di indulgere in discussioni
halakhiche con i più eruditi Rabbini che incontrava, come R. Joshua
Falk, l'autore delle glosse al Talmud Penè Yehoshua', visitato a
Francoforte. Inoltre si faceva mostrare manoscritti e rare edizioni a
stampa, registrando puntualmente le sue scoperte nel diario: emerge
quanto la frequentazione delle biblioteche (di quella di Torino scrive
che, "a confronto con quella di Parigi è paragonabile ad una scimmia
rispetto ad un uomo"!) e la ricerca di questo genere di testi fossero la
sua passione tanto da avere una parte cospicua e significativa nella sua
produzione halakhica. Concluso il soggiorno in una certa Comunità veniva
congedato da uno o più maggiorenti che si incaricavano di scortarlo
almeno per una parte del trasferimento successivo.
Gli emissari ospiti erano in genere invitati a pronunciare la derashah
(sermone) nella Sinagoga o nella Casa di Studio di ogni Comunità
visitata, durante lo Shabbat o in altra occasione. Il Chidà non manca di
annotare sommariamente nel suo diario tali eventi. Dei testi delle sue
derashot possediamo numerose raccolte, ma non è sempre dato sapere in
quale anno e in quale luogo siano state pronunciate con esattezza. E'
verosimile che egli, come tutti gli shadarim, approfittasse delle visite
nelle Comunità della Diaspora per fare propaganda in favore di Eretz
Israel, in modo da creare un interesse. Il darshan coglieva l'occasione
per insegnare ai suoi fratelli della Diaspora i chiddushè Torah
(interpretazioni innovative) elaborati nelle Yeshivot della Terra
d'Israele e i Rabbini della Diaspora, dal canto loro, potevano sfruttare
l'autorità religiosa degli emissari in visita per farsi dare la haskamah
(approvazione) ai loro libri in via di pubblicazione o la conferma ai
loro diplomi. Gli emissari dal canto loro derivavano questi poteri non
solo dalla loro personalità, ma soprattutto dall'autorità morale
rappresentata da Eretz Israel stessa e dai grandi Rabbini che li avevano
inviati: il Chidà non manca mai di riferirsi, in tali casi, al merito
della Terra e al merito dei Padri.
Per questi motivi si aveva cura di reclutare gli emissari in genere fra
persone di statura. Talvolta le Comunità si approfittavano della loro
presenza perché dirimessero controversie interne o per sottoporre loro
quesiti in materia di halakhah o di minhag (consuetudine) sulle quali le
Comunità stesse non erano state in grado di decidere da sole: già in
epoca romana, all'epoca del Patriarcato, gli emissari erano soliti
addirittura nominare capi e funzionari delle Comunità. Il modo in cui il
Chidà affronta una controversia fra shochatim a Bordeaux è in se stesso
una lezione di leadership comunitaria:

In città c'era dissenso, perché il Rabbino della Comunità, il venerabile
Chakham R. Jacob Attias aveva esautorato un macellatore rituale
qualificato. L'intera Comunità mangiava la carne macellata da lui, ma
ora un altro macellatore, parente del Rabbino Attias eseguiva la
macellazione per conto di questi. Io dissi che di giorno feriale non
mangiavo carne e che per Shabbat avrei provveduto da solo a macellarmi
dei polli. E' per simili ragioni che mentre ero a Londra avevo imparato
in pochi giorni come si macellano i polli e così feci. Ogni settimana il
venerdì macellavo per me stesso qualche pollo: insieme a me si trovava
il S. Beniamin Abraham Ashkenazì, macellatore autorizzato dal Rabbino di
Amsterdam, ed insieme verificavamo il coltello per circa un'ora.
Fin dal giorno del mio arrivo gli amministratori e tutti i dignitari
venivano a supplicarmi perché risolvessi la disputa fra i macellatori ma
io, per rispetto del vecchio (Rabbino) mi astenni dalla questione. Ogni
giorno ripetevo al già citato R. Jacob che doveva metter buona fine a
questa faccenda perché tutti gli mormoravano dietro, ma egli ostinò il
suo cuore. Alla fine, dopo diciotto giorni -e notti- di vane insistenze,
mi inviarono un loro delegato (per dirmi) che secondo loro facevo male a
tenermi indietro dal giudicare la questione avendo il potere di farlo.
Mi recai subito dal Rabbino e gli dissi: "Hai visto che finora sono
stato molto attento a non ferire il Tuo onore. Ma ora, mio malgrado,
sono costretto ad intervenire". Mi disse che tale era anche la sua
volontà. Gli dissi che allora agivo con la (sua) autorizzazione e mi
mostrò una sentenza che aveva scritto in proposito, ma… era come se
quest'uomo non avesse mai visto la luce del giorno: ferro mescolato ad
argilla, e fango a mo' di condimento! Pregai gli amministratori di
scrivermi una "supplica" nella loro lingua, affinché tutti sapessero che
(l'iniziativa) non partiva da me. Scrissi anche un documento (di
rinuncia all'incarico) per il suddetto R. Jacob affinché lo firmasse ed
essi lo costrinsero a firmare contro la sua volontà l'impegno ad
accettare tutto ciò che avessi detto. Scelsi due uomini dotti, il
Chakham R. Abraham Lopez e il Chakham R. Abraham Monsanto, che avevano
anch'essi sensibilità nell'esaminare il coltello. Quella sera andai alla
ricerca di un polmone affinché il macellatore Ashkenazì mi mostrasse il
lobo maggiore e il lobo minore e simili, dopodiché ripassai le regole
nello Shulchan 'Arukh e in parte nel Bet Yossef, soffermandomi sul
quelle concernenti il macellatore squalificato dal Rabbino e vidi, a mia
modesta opinione, che le sue parole erano senza senso. Mi consultai con
i due sopramenzionati e furono d'accordo con me nel trovarci ad
esaminare i macellatori e quello che R. Jacob aveva squalificato si
rivelò in realtà esperto ed affidabile. Quell'altro, invece, il suo
parente, in cinque giorni non fu in grado di presentarci un coltello
(atto all'uso). Esaminammo anche gli altri macellatori che prestavano la
loro opera per terzi e alcuni li dovemmo rimuovere. Scrissi tutto ciò
nei registri della Comunità e lo firmai. Provai dispiacere per la
Profanazione del Nome e piansi in silenzio per il vecchio Rabbino. Ad
ogni buon conto tutti sapevano che avevo agito in Nome del Cielo,
costretto ad intervenire mio malgrado.
Il Rabbino mi domandò le ragioni per cui avevo reintegrato il
macellatore che egli aveva squalificato e mi richiese indietro la sua
sentenza, ma io rifiutai, perché non aveva sufficiente intelletto per
comprendere la verità e si basava su suo figlio, il quale peraltro non
aveva mai studiato in profondità e non era in grado di prender
decisioni. Gli dissi: "Se vuoi tacere, taci, altrimenti scrivo a tutta
la diaspora d'Israele allegando la tua sentenza insieme alla mia, e a
loro la decisione!" Spiegai la cosa davanti all'intera Comunità
sforzandomi molto di essere ben educato e paziente, finché pervenni a
ristabilire la verità. Evitai la controversia con il vecchio (Rabbino)
nonostante non si fosse comportato il bene: anzi, ebbi cura di
menzionarlo con grande onore nei due sermoni che pronunciai lì.

Fra le controversie del mondo ebraico del tempo spicca senz'altro quella
relativa allo pseudo-messia Shabbetay Tzvì, mandato a sua volta come
emissario da Gerusalemme in Egitto nel 1664 e poi convertitosi
all'Islam. Dopo quasi un secolo dalla sua morte la sua dottrina, che
aveva lasciato profonde divisioni, non era ancora sopita del tutto e lo
stesso Chidà non manca di accennarvi citando, qua e là nel suo diario,
opere che affrontavano la questione.

Carattere e stile narrativo.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare il Chidà non era affatto un
"topo" di biblioteca. Personalità dalla mente fervida e dalla curiosità
insaziabile, era attratto dai paesaggi urbani, dai giardini zoologici
che non manca di descrivere, dallo sfarzo delle corti. Non manca di
riportare in ogni dettaglio la cerimonia di incoronazione del nuovo
Sultano di Costantinopoli. A Parigi si intrattiene su questioni
scientifiche con i professori della Sorbona e descrive meravigliato un
linguaggio per sordomuti inventato da uno dei suoi ospiti, al punto che
re Luigi XV stanziò una borsa di studio a beneficio dell'inventore. Non
è dato sapere con certezza quante lingue parlasse, ma il diario è
costellato di parole in arabo, turco, italiano, spagnolo e francese. Ma
il tratto personale che più colpisce nei suoi scritti è la straordinaria
ironia che il Chidà è in grado di manifestare senza risparmiare neppure
se stesso.

11 Iyar, P. Emòr. Martedì: a mezzogiorno lasciammo Harvich. Appena
usciti dalla porta della città dove il calesse ci attendeva volevo fare
acqua. Per pudicizia salii su un muretto di pietre, ma dato che ero
ancora visibile avanzai un po' e vidi una sorta di campo che presentava
dal lato opposto un abbassamento del terreno. Mi sembrava che fosse
terra solida e perciò scavalcai il muretto di pietre che lo delimitava e
misi un piede per terra, ma esso sprofondò nel fango e nello sterco fino
alla coscia. Evidentemente si trattava di un luogo di scarico che
raccoglieva tutta l'immondizia e gli escrementi della zona. Avevo una
gamba immersa fino alla coscia, come detto, e l'altra a penzoloni, con
la mano attaccata al muretto: mi vidi in gran pericolo, ancora un passo
e sarei sprofondato! Cominciai a gridare con voce amara, ma nessuno mi
sentiva, finché una Gentile che abitava a qualche distanza udì la mia
voce. Anch'essa cominciò a strillare: povero me! Non mi era rimasta più
forza di rimanere appeso. Temevo che il muretto potesse crollarmi
addosso, cosa che sarebbe stata lapidazione e strangolamento in un unico
atto, per carità! Ma il D. di mio padre mi è stato d'aiuto e per il
merito dei Padri sopraggiunsero il vetturino e l'attendente e si
accorsero della mia sciagura. Tirarono su Yossef legato in corde di
vergogna con cattivo odore in abbondanza. Quanto alla maggior parte dei
miei vestiti, uno appariva diverso dall'altro, ma avevano in comune lo
sporco, l'imbrattamento e la puzza. H. con la Sua misericordia ha
ispirato il cuore di un Gentile che era giunto per il frastuono e mi ha
fatto entrare in casa sua dove era un pozzo. Mi sono spogliato, lavato e
così pure gli abiti per togliere lo sporco. Con una coperta addosso sono
risalito sul calesse con gli abiti a bagno accanto. Ringrazio H. con
tutto il cuore che pur avendomi castigato non mi ha consegnato alla
morte. Ero indegno di tutti i benefici: benedetto D. Salvatore.

Così descrive un altro incidente occorsogli ad Amsterdam una mattina
mentre si recava a recitare la preghiera nella famosa Sinagoga Portoghese.

Avvicinandomi al portone della Sinagoga levai gli occhi e vidi una
carrozza che giungeva di corsa verso di me. L'uso in città era che i
pedoni dessero sempre la precedenza ai carri, perché la terra è larga e
il vetturino non si cura di nessuno, a costo di staccargli il cranio!
Grande fu perciò la mia apprensione che mi trovai costretto a correre
per farmi da parte. Accidenti al carro, accidenti alla strada assai
sdrucciolevole ad un lato della quale c'era pure il canale. Mi ricordo
solo di aver svoltato. A quanto pare nel curvare sono caduto, picchiando
la testa contro il selciato. Un Ebreo mi soccorse, mi sollevò e mi
condusse alla Sinagoga. Non mi ero accorto di nulla: mi ritrovai nella
Sinagoga assai confuso, frastornato e tremante senza sapere cos'era
successo. Dopo poco tempo venne da me il mio aiutante e gli domandai
cosa mi era capitato, in quanto stava accanto a me per la strada, sia
pure a qualche distanza. Mi rispose che ero caduto, mi avevano sollevato
e trasportato (alla Sinagoga): egli aveva assistito da lontano e
strillava, ma non poteva venirmi in aiuto per il cattivo stato della
via. Aprii il formulario per recitare la preghiera, ma non riuscivo a
distinguere le lettere. E per la gran confusione e il dispiacere di non
riuscire a leggere quasi non mi era rimasta l'anima! Cominciai allora a
pregare a memoria disordinatamente e al termine della preghiera mi tornò
la mente ed anche la luce degli occhi fu di nuovo con me. Benedetto D.
Salvatore, "Ringrazio molto H. con la mia bocca, lo lodo pubblicamente".
"Sia il Nome di H. benedetto d'ora per sempre".

Ed infine così descrive il passaggio del Col di Tenda, fra Nizza e
Torino, in pieno inverno.

25 Tevèt, P. Waerà. Lunedì: partimmo da Nizza a mezzogiorno. Il giovane
dignitario Mosheh Yossef Vidal e il S. Jacob Astruc ci accompagnarono
per dieci giorni: possano ricevere doppia ricompensa dal Cielo! Varcammo
due colli gibbosi, il Braus e il Bruis e la terza montagna denominata
Colle di Tenda. La passammo il mercoledì: tre ore ci mettemmo a salire
sul monte, che era strapieno di neve e quando ci accingemmo a
ridiscendere (dall'altra parte) non ci riuscimmo perché eravamo immersi
nella neve noi e il nostro bestiame. Prendemmo con noi quattro Gentili
in aiuto: due ci afferrarono, ci trascinarono e ci buttarono (fuori),
una grande angoscia! Lode a D. benedetto che era una giornata tiepida in
cui il sole splendeva con forza. Io, benché avessi addosso diversi
vestiti, due zimarre, due paia di calze e simili, con tutto ciò avrei
avuto un gran freddo se non avessi mangiato cioccolata pura: ne divorai
più di un litro! Tempo di scendere alle falde della montagna mi vennero
meno le forze e quasi mi ammalai. Ho stimato che ci fossero 15 metri di
neve! Quei due che erano venuti con noi ci raccontarono di essere
passati di lì in Elùl (agosto-settembre) e sapevano dell'esistenza di
posti con 50 metri di neve: benedetto Colui che salva e redime!
Giungemmo così alla città di Cuneo in pace giovedì sera 29 Tevèt.
All'ingresso della città si radunarono in molti Gentili, grandi e
piccoli, e dovemmo patire le loro contumelie e risate: volevano
picchiarci, perché erano molto cattivi e peccatori. Lì pronunciai il
sermone della P. Waerà.

Andrà notato che il motivo della cioccolata (liquida), allora di recente
importazione in Italia, rappresenta un topos anche per altri grandi
Rabbini Italiani dell'epoca. A lodarne le virtù e a descriverne la
produzione ci pensa con dovizia di particolari R. Itzchaq Lampronti
nella sua enciclopedia talmudica Pachad Itzchaq, s.v. Qioqolata!
Vi sono nel diario pagine descrittive di una forza narrativa
eccezionale, come la vera e propria cronaca dell'alluvione di Avignone
durante Chanukkah del 1755, che riportiamo integralmente al termine
della nostra introduzione:

26 Kislew, P. Miqqetz. Domenica: sabato sera dopo mezzanotte stavo
studiando allorché mi addormentai e mi dissero in sogno: "Beneficenza!
La beneficenza salva dalla morte!". La mattina dopo di buon ora volevo
partire in pace, ma ancor prima che facesse giorno udii bussare: era la
voce del vetturino che mi diceva che non si poteva partire perché non
eravamo in grado di attraversare il fiume davanti a noi. Mi dovetti
fermare e a mezzogiorno diedi tre franchi in beneficenza. All'ora della
preghiera pomeridiana sentii dire che il Rodano e altri fiumi vicini
alla città si erano alzati a tal punto che laddove il fiume formava
un'isola sulla quale abitavano dei pastori, i due corsi si erano
congiunti fino a sommergerla e a distruggere tutto ciò stava nel mezzo,
che era luogo di pascolo. Gli altri fiumi si unirono anch'essi e le
acque entrarono nella città di Avignone con gran forza. Domandai agli
ebrei di Avignone semmai (D. ci scampi!) l'acqua avesse raggiunto la
Strada degli Ebrei, nel qual caso l'intero paese sarebbe stato travolto,
perché il quartiere ebraico era nella parte alta della città. Durante la
notte l'acqua arrivò in effetti fino alla Strada degli Ebrei e in tutta
la città raggiunse l'altezza di due piani. Tutte le porte furono
sprangate, perché l'acqua le aveva di gran lunga sorpassate in altezza e
tutta la città fu presa da un grido grande ed amaro per la morte tanto
di esseri umani che di animali (di questi ultimi ne morirono 480 solo in
città) e per la fame. L'acqua infatti trascinò via centinaia e migliaia
di qor di frumento, farina, otri di vino e di olio e pacchi di zucchero.
La terra che un tempo stillava latte e miele, estesa come valli, ora era
attraversata dall'acqua. Anche molta mercanzia dei Gentili andò smarrita
e alcuni edifici crollarono sotto il peso dell'acqua. Anche tutte le
fonti e i pozzi si elevarono per diversi piani, straripando persino nel
quartiere ebraico (che pure era in posizione elevata). Accanto alla
Sinagoga c'era un piccolo cortile con una stanza dentro un'altra stanza,
a sua volta dentro un'altra stanza: nella più interna vi erano venti
scalini che portavano ad un bagno rituale di acqua viva: la fonte aveva
risalito tutti i gradini e aveva riempito tutte le stanze, uscendo
infine nel cortile da quella parte. Quanto a me nella mia miseria,
quando ebbi domenica sera 27 Kislew qualche notizia dell'accaduto,
vedendo che la pioggia continuava ad imperversare con forza come quasi
mai mi era capitato di vedere e i fiumi erano strapieni, le fonti e i
pozzi salivano sempre più su, non mi era rimasto respiro: vedevo la
morte fra i miei occhi! In particolare perché nel giro di pochi giorni
venimmo a sapere che Lisbona, la capitale del Portogallo, si era
trasformata in un disastro: fu inghiottita dalla terra e il resto era
stato divorato dal fuoco e da altri consimili sconvolgimenti della
natura. Dissi allora ai nostri fratelli della Casa d'Israele: "Andiamo
alla Sinagoga a recitare Selichot", ma declinarono con motivi eleganti.
Un'ora prima di mezzanotte mi vestii di sacco e insieme al mio
attendente Samuel ben Chayim recitai per 91 volte il Salmo 91 e il Salmo
20 e le preghiere lacrimevoli che si usa recitare per i moribondi, D. ne
scampi! Dopo mezzanotte diedi 24 soldi in beneficenza per conto mio e di
tutta la S. Comunità e un soldo per l'anima di R. Meir ba'al ha-Nes.
Benedetto il S. che con la Sua grande misericordia ha avuto pietà di
noi: subito la pioggia s'interruppe e lunedì mattina l'acqua dei fiumi
non invase più la città. Sebbene le acque dei pozzi seguitassero a
crescere, eravamo più tranquilli: lunedì uscì il sole, soffiò il vento
da est e l'acqua calò progressivamente finché giovedì (gli abitanti)
poterono uscire dalla città, sia pure con difficoltà, e mandarono a
procurarsi della farina dalla campagna, perché la città era molto
affamata. Grazie a D. a noi, figli del Patto, non ne mancò. (Le acque
dei) fiumi si fermarono davanti al quartiere ebraico senza entrare nella
Strada degli Ebrei. Nei loro libri è scritto che se le acque di Avignone
avessero raggiunto un certo punto –D. ci scampi-, la città sarebbe
perita per l'alluvione: questa volta avevano passato quel segno di una
spanna! Dissero anche che certamente era la prima volta che ciò accadeva
da duecento anni e se fossimo partiti domenica mattina di buon ora,
sebbene fosse possibile che riuscissimo ad attraversare il fiume, cosa
sarebbe poi stato di noi con tutta la pioggia che avremmo preso per
strada? "Ringraziate il S. perché è buono, poiché eterna è la Sua
misericordia!". Benedetto colui che fa del bene anche agli immeritevoli,
che ci ha fatto ogni bene, benedetto il D. salvatore, Amèn.

Nessun commento: